CACCIARINI GIANNI

CACCIARINI GIANNI

 

Elezione: Pittore, eletto Accademico Corrispondente 18.9.1985; eletto Accademico Ordinario 11.10.1991

Classe di appartenenza: Pittura

Ruolo Accademico: Accademico Ordinario

Prima di dedicarsi alla pittura Gianni Cacciarini pensava di fare l’architetto; ma a quel lavoro egli consacra soprattutto i primi anni dopo la laurea (suoi, ad esempio, i progetti della chiesa di Santa Maria Madre della Chiesa a Pisa e per l’altare della cappella Castellani in Santa Croce, inaugurato nel 1973), senza tuttavia mai rinnegare quella formazione che riterrà anzi importante per la sua poetica d’artista. Così, già ai tempi in cui frequenta l’università di Firenze – città dove è nato – seguendo con particolare interesse i corsi di Leonardo Benevolo, Cacciarini apprende l’incisione dall’amico Vairo Mongatti, allievo di Morandi, indirizzato ed incoraggiato anche da Roberto Coppini, che lo presenterà poi, qualche anno dopo, a Pietro Annigoni. A quel tempo dipinge anche grandi pannelli, con particolari ingranditi dalle scene delle Battaglie di Paolo Uccello – “quasi un lavoro da architetto”, come lui stesso li definisce -: con questi vince nel 1972 una borsa di studio per i giovani artisti del Comune di Firenze. Ma, per tutto il decennio, Cacciarini preferirà approfondire l’incisione, prima di tornare alla pittura con modi e temi assai diversi.

Del 1973 è la cartella di sei incisioni – Le viti – presentata presso la galleria dell’antiquario Giovanni Conti, dove si svolge il primo contatto dell’artista col pubblico. Immagini delle quali Luigi Baldacci, nel testo che accompagna la raccolta, sottolinea la “forma contenuta e compressa” che evoca “il senso di una prigionia provvisoria”, lodandone l’essere “opera novissima e modernissima (nell’impaginazione degli oggetti, nell’ossessivo fuoco dell’obbiettivo)” che pur affida “all’artigiana esperienza della mano la prima responsabilità del fatto artistico”. Doti che saranno anche apprezzate da Pietro Annigoni, quando, nel 1976, presenta la raccolta edita da ‘Il Torchio’ di Milano, Le fabbriche strutture che Cacciarini contempla sentendosi suggestionato, in un tempo di produzione di massa in cui “l’uomo non può più identificarsi col proprio lavoro”, dal loro apparire “come vecchi utensili in disuso”, da “quel senso di cosa abbandonata”, dal “bilanciarsi sottile di presenza-assenza”.

All’attività di incisore, per la quale ottiene i primi riconoscimenti (nel 1974 vince il premio della critica e dei grafici iugoslavi alla IV Biennale Internazionale della Grafica di palazzo Strozzi, nel 1976 è segnalato da Renzo Biasion per il catalogo Bolaffi della grafica e, da quell’anno, figura nel catalogo della galleria antiquaria Prandi di Reggio Emilia), Cacciarini accosta ora lo studio della pittura, sotto la guida “discreta ed affettuosa” di Annigoni.

Sarà Maria Pia Gonnelli, nel gennaio del 1978, ad offrire a Cacciarini la prima occasione di esporre le incisioni in una personale, alla Libreria Antiquaria: oltre alle Viti ed alle Fabbriche, si trovano le prime nature morte e vedute urbane, scorci di muri di Firenze, ed il catalogo accoglie i testi di Baldacci, Annigoni e Cacciarini già ricordati. Egli partecipa inoltre alla IV Rassegna della grafica di Forlì (organizzata dal centro Internazionale della grafica di Venezia) e alla Biennale nazionale di arte figurativa di Imola e, nel novembre, espone alla galleria ‘La papessa’ di Roma.

Nello stesso anno la grafica di Cacciarini figura alla mostra newyorkese New talent in Printmaking, della Associated American Artists, ed è notato dal collezionista John Rosenwald che sceglierà poi gran parte dei suoi lavori, ora nelle collezioni della National Gallery di Washington. L’esperienza figurativa americana ha d’altronde un certo rilievo nella formazione di Gianni; infatti, oltre a prendere lezioni dall’incisore Denis Olzen, egli – come noterà Antonio Natali nel catalogo del 1988 sui Dieci anni di acquisizioni del Gabinetto dei Disegni e Stampe degli Uffizi (le prime incisioni di Cacciarini furono acquistate nel 1978) – accoglie influenze dalla pop-art, che si rifletteranno anche nei dipinti. Ma l’interesse per l’arte contemporanea, anche inglese (specie per Bacon, Freud e Hockney) convive sempre con il colloquio costante con antichi maestri, tra cui i prediletti sono Pontormo, Rosso, Rembrandt, Caravaggio, Velzquez, Vermeer, Chardin, Turner, Ingres.

Dal viaggio in Inghilterra nel 1978, compiuto insieme all’amico Roberto Coppini, nasce la Suite inglese, composta da poesie di Coppini e da quattro acqueforti del Nostro, che non ‘illustrano’ quei testi ispirati a paesaggi, ma, per via analogica, esplorano un mondo immobile di oggetti, di piccole cose ov’è l’essenza del gusto inglese: fiori di carta e di vetro, paralumi leggeri e pesanti, trombe di vecchi fonografi, ferri battuti e calamai di cristallo, che Carlo Sisi assimilerà (nel 1989) agli “scandagli sottomarini di Odilon Redon”. Per la presentazione di quell’opera raffinata, edita dalla stamperia ‘Il Bisonte’, Maria Luigia Guaita allestisce anche, nel gennaio del 1979, una personale di Cacciarini.

Nel 1980 giunge il momento della prima mostra di pittura, allestita alla galleria Vallardi di La Spezia: quasi una sorta di ‘prova generale’, dell’esposizione alla galleria L’Indiano di Paolo Marini a Firenze, che, anche nel ricordo di Gianni, fu la prima importante verifica del suo lavoro. Tuttora fondamentale per intendere la poetica di Cacciarini resta lo scritto introduttivo al catalogo di Carlo Ludovico Ragghianti, dove si dissipa sul nascere l’equivoco del trompe l’œil che avrebbe potuto attribuirsi a quelle opere se considerate con sguardo distratto, o non colto; quelle nature morte sono infatti composte in “organismi propriamente architettonici”, e dunque, secondo l’esempio di Chardin o Morandi, “non oggetti, ma panorami di edifici di misura palmare” dove “una disciplina rigorosa e limpida investe ogni parvenza e la immobilizza, la cristallizza”. Macchine da scrivere Underwood, una cucitrice di scarpe di Stoccarda, abat-jour in vetro e metallo regolabili, una fiamma ossidrica, ventilatori Marelli, riscaldatori, cacciaviti, bottiglie e bottigliette di inchiostri e di birra, di olii e di acidi, i telefoni, i libri, i registri, i calamai di cristallo tagliato, astucci, lampadine, matite, penne, di cui Gianni tende “nella consuetudine immemore” a far dimenticare allo spettatore “le proprietà funzionali e strumentali, fino a presentarle come “essiccate collezioni, ma trasferite in una sorta di imbalsamazione che sconfina in un’archeologia remota, un presente o un prossimo passato già leggendario”, dove la tensione si accende fino al culmine d’una “catarsi formale non turbata”.

Gli scenari che Gianni crea con gli oggetti vivono delle atmosfere di luoghi che furono altamente evocativi: l’ufficio di suo nonno, Tobia Cacciarini, tipografo, simile nell’immaginazione alla stanza del detective di Chicago degli anni Trenta – un riferimento al cinema, per lui così importante -; o i meandri del laboratorio, dove si aggirava “tra tagliacarte affilati come ghigliottine, cucitrici dentate, barattoli di colla, rifollatrici, rivettatrici, presse, punzonatrici”: strumenti del lavoro quotidiano che divenivano, ai suoi occhi di bambino, mostri animati e inquietanti, e proiettavano le loro ombre minacciose nei grandi saloni del palazzo Visacci, e che ora egli desidera conoscere, dipingere, possedere, studiare, per esorcizzare “quell’antica riverenza o timore”, destinandoli “a ricevere una sorta di investitura simbolica da parte della coscienza e dei sensi” (Cacciarini nel catalogo di Milano, 1994).

In questa via egli muove verso approfondimenti ulteriori; così, nel 1982, espone nuovamente alla galleria L’Indiano, una serie di dipinti da cui scompaiono alcune caratteristiche solo ‘di studio’ che ancora caratterizzavano le composizioni precedenti. Più fiducioso, e forte anche dei riconoscimenti di Ragghianti, Cacciarini – che nel frattempo ha esposto all’estero, alla mostra “Ars sans frontières” della Galerie Isy Brachot di Bruxelles e alla galleria Brookhoven di Amsterdam – trasceglie alcuni elementi, e ne inserisce altri, per creare più movimento; nel catalogo Roberto Tassi osserva l’ “atmosfera di malinconia” e di “sottilissima angoscia” che da quell’assemblaggio di oggetti può scaturire.

Sensazioni che Gianni non nega possano risultare riflessi del suo o del nostro inconscio, ma che egli non prova nel comporre; atto che per lui è fonte inesauribile di “divertimento, gioia e amore per gli oggetti”.

Tassi presenterà nuovamente l’opera di Cacciarini nel 1984, insieme a Roberto Coppini, in occasione della personale presso la galleria Il Torchio di Modena. Nel 1982 Cacciarini espone anche alla galleria G.R. di Parma e alla mostra collettiva di Pistoia Ir/Realtà Soggettiva a cura di Tommaso Paloscia, mentre nel 1983 partecipa con la galleria Vallardi di La Spezia alla Expo Arte di Bari (dove una sua opera sarà acquistata dalla pinacoteca cittadina). Altre due personali saranno allestite quell’anno alla Syracuse University di Firenze e alla Vecchia Farmacia di Forte dei Marmi.

Gli appuntamenti più significativi del 1985, oltre alla collettiva Natura morta presso la galleria L’Indiano di Firenze, sono le mostre personali al Collegio Reale di Spagna di Bologna – con la pubblicazione di una monografia di José Guillermo Valdecasas e Michele Greco – e quelle allestite alla galleria ‘Il segno contemporaneo’ di Brescia, e alla galleria Pananti di Firenze, con la presentazione nel catalogo di Pier Carlo Santini (che inviterà poi Cacciarini alla mostra Continuità di un’esperienza nell’ambito della IX Rassegna nazionale della città di Pistoia). Tra i dipinti esposti quell’anno appare inoltre, quasi fusa nelle nature morte stesse, la figura. Un’esperienza fino ad allora mai tentata, forse anche perché, al tempo in cui Cacciarini aveva frequentato lo studio d’Annigoni, l’anziano maestro non dipingeva più dal modello, ma solo a memoria per i cicli di affreschi. Tuttavia Gianni terrà presente gli insegnamenti appresi per gli oggetti (“In fondo, egli dice, il discorso non cambia poi molto”), desideroso di misurarsi con qualcosa che, pur incutendogli un certo timore, lo attrae in maniera profonda. Tratterà invece nei dipinti una sola volta il paesaggio, preferendo ‘reinventarlo’ nelle incisioni perché, come nel cinema in bianco e nero, così nella grafica, il paesaggio assume un’altra dimensione, fuori dalla realtà che ancor oggi più lo ispira.

Ma nel 1985 Cacciarini si dedica con passione anche ad un’altra ‘opera’: la ristrutturazione, insieme a Daniele Cariani, delle sale al piano terreno di palazzo Visacci-Guicciardini in Borgo degli Albizi (l’ufficio-officina di suo padre e di suo nonno), in cui trasferisce lo studio, ed anche l’abitazione, prima in via della Pergola: un luogo di grandissimo fascino, dove gli affreschi settecenteschi (le prospettive e le rovine classiche dipinte, di Andrea Landini e le figure di Giovanni Cinqui), fan da cornice a scelte raffinatissime, e talvolta ardite, degli arredi: l’insieme appare notturno e teatrale, palpitante di ombre e luccichii metallici, ma nello stesso tempo intimo e disarmato, come nei dipinti di Cacciarini, dove architetture di oggetti attendono l’appassionato srotolarsi di un nastro di seta.

Quelle stanze, allestite da Daniele Cariani, non sono solo il luogo di ritiro del pittore, ma uno spazio pienamente vissuto ove la sospensione degli altri ambienti si addensa sugli strumenti del lavoro di Gianni e sulla collezione di pellicole cinematografiche: una passione questa di lunghissima data, nella quale Gianni trova spunti e conferme per le atmosfere dei suoi quadri, “purché vi siano il culto dell’inquadratura e della composizione, ancora vivi ad esempio in Visconti, ma quasi dimenticati dopo il Sessanta”. L’attrazione per il linguaggio cinematografico (“ciò che forse mi sarebbe piaciuto fare se non fossi divenuto pittore”) lo porta a sperimentare due cortometraggi con oggetti che si animano. Una medesima passione – che traspare del resto in alcuni suoi dipinti, specie nei più recenti – prova egli per il teatro e per l’opera; cura infatti alcuni progetti scenici, come quello, nel 1988, per la commedia settecentesca di Giovan Battista Andreini, scritta per la corte di Francia e messa in scena al castello di Ischia.

Nel 1986, oltre alle rassegne collettive (Conservatorio di San Michele a Pescia, galleria L’Incontro d’Arte di Roma, La presenza, l’oggetto, la luce alla galleria Vallardi di La Spezia,) si annotano, per la pittura, le mostre personali all’Arco ’86 di Madrid (con la galleria Michaud di Firenze) e all’Arte Fiera di Bologna (con la galleria Alain Blondel di Parigi); infine la prima Biennale Internazionale della Grafica Tono Zancanaro di Vico d’Elsa.

L’anno seguente il Nostro espone nuovamente alla galleria L’lncontro di Roma i suoi oggetti, che appaiono – come osserva Dario Micacchi nel catalogo – simile a pietre dure, “scandagli del tempo” che si oppongono alla velocità con la quale sono consumate, nei decenni presenti, cultura ed arte e “ci rendon consapevoli di un tempo altro della vita e dell’immaginazione”. Sempre nel 1987 Gianni espone da Pananti a Firenze e al Castello di Mesola nella mostra La natura morta nell’arte italiana, a cura di Vittorio Sgarbi. Questi, nel volume Natura morta contemporanea, edito nel 1988, inserisce i dipinti di Gianni tra gli esempi di “pittura colta”, evidenziandone, pur nella scelta del “repertorio tecnologico un po’ antiquato, con il sapore dei primi del secolo, in accordo con le sue origini fiorentine”, “il taglio dell’immagine sempre rigoroso, geometrizzante, come se, in tralice, le composizioni, mutati gli oggetti, riproducessero il ritmo morandiano”.

Nel 1988 Cacciarini, che non ha abbandonato l’incisione, espone alla Biennale della Grafica della pinacoteca Alberto Martini di Oderzo (dove tornerà anche nel 1990), all’Istituto italiano di cultura di Vienna e alla galleria L’Incontro di Ancona, insieme a Bodini, Cazzaniga, Piacesi, Stelluti e Trubbiani, in occasione dell’edizione di una cartella di sei acqueforti. Perla pittura Gianni partecipa invece all’Expo di Bari e alle collettive della galleria L’Incontro d’arte di Roma, e a quella intitolata Pittura e immagine dell’uomo all’Accademia delle arti del disegno di Firenze dove espone una delle sue ultime opere, l’Autoritratto con distillatore”, presenta inoltre alla galleria Humus di Firenze, un dipinto di grandi dimensioni, Macchine amiche, in cui ritroviamo il panno rosso, di pontormesca memoria.

Proprio all’inizio del 1989 la galleria Pananti di Firenze dedica a Cacciarini una mostra retrospettiva delle sue incisioni, da quelle ormai ‘storiche’ del 1973 fino al 1988. Nel saggio introduttivo al catalogo (poi ripubblicato nella rivista Artista’ dello stesso anno ), Carlo Sisi riflette sugli ultimi mutamenti avvenuti nella pittura di Cacciarini, dove accanto alle “macchine celibi”, è apparsa la figura, in particolare sotto forma di autoritratto. E, se in quegli oggetti rari, scelti per le loro forme seducenti – ma “anche per la disponibilità a divenire traslati simboli” – si avverte “palpabile la trasfusione dell’anima poetica nella minerale sostanza di reperti estratti dal deposito del sogno e di un personalissimo ‘bello ideale”, nell’autoritratto Sisi vede esplicita “la palese confessione di un narcisismo sofferto e fecondo, prima solo consegnato alla dialettica segreta dei suoi oggetti-parola”.

Ancora nel 1989 Cacciarini espone i suoi dipinti alla Galerie Cobra di Parigi, alla galleria Spagnoli a Lugano, a L’Incontro d’arte di Roma, e a Firenze, nell’ambito del salone Internazionale d’arte; partecipa inoltre alla collettiva In perfetto disordine della galleria L’Incontro di Ancona. Lì torna anche nel 1990 in due diverse occasioni: la collettiva Immaginazione poetica ed una personale, che reca l’introduzione al catalogo di Franco Simongini. Di quell’anno sono inoltre la personale di Buti (Imago delle mie brame) e la collettiva ai Bottini dell’Olio (Livorno), Il reale, l’essenziale, l’ironico.

Nel 1991 le opere di Cacciarini saranno presentate dalla galleria Marijske Raaijmakers a Velno e all’Arte Fiera di Maastricht, ed egli parteciperà alla mostra di Mesola Il ritratto nel Novecento, con Il ritratto di Jonathan Turner, critico di fama internazionale. In dicembre le incisioni di Gianni figurano alla galleria La Soffitta e, durante l’inaugurazione, è presentato un film sulla sua pittura: Le meraviglie del quotidiano di Massimo Beccattini con testo di Pier Francesco Listri. L’anno seguente espone a Roma (galleria L’Incontro d’arte), al Centro culturale Paggeria di Sassuolo e a Bari, presso la galleria Esposito.

Del 1993, oltre alla personale di pittura presso la galleria Realisten de l’Aja, si ricorda la mostra di incisioni, nuovamente da Pananti a Firenze (e poi a Fabriano), insieme a quelle di Roberto Stelluti. Artisti definiti entrambi, nella presentazione di Gabriele Simongini, “eccentrici”, e tesi alla “difficile conquista di una bellezza appartata, sia nei temi che nella perfezione tecnica, vibrante di risonanze profonde”, così diverse e lontane dalla banalità di immagini “pseudomoderne”.

Nello stesso anno l’iter artistico di Gianni è esaminato anche da Giovanna Uzzani ne La pittura in Italia. Il Novecento (Milano, Electa), ove si annota come, nelle tavole di quel momento, egli sia giunto ad isolare “una forma muta, avvolta di luce acida, in sfondi dai colori aggressivi e antinaturalistici, evitando così gli equivoci dell’intimismo e giungendo ad una nuova, astratta monumentalità”.

All’inizio del 1994 dieci dipinti figurano da Giulio Residori allo Spazio Ergy di Milano, accompagnati da una breve monografia dal titolo Oggetti del desiderio nella quale, oltre all’introduzione di Residori, lo stesso Cacciarini spiega – con parole ed argomenti già ricordati sopra – l’origine dell’ attrazione per gli “immoti protagonisti della sua pittura”. Ma se nella mostra di Milano figurano soprattutto nature morte – tra cui le immancabili macchine da scrivere (che perfino Uwe Breker – il più grande collezionista del mondo di quello strumento – ed anche la Olivetti gli commissionarono) – Cacciarini si dedica molto, in questi tempi, alla figura, ispirato da quella “eccitazione visiva, tattile” che certi grandi del passato, come Pontormo, Rosso, ma anche Velzquez gli suscitano: lo anima la volontà di cambiare sempre “perché se una cosa mi viene a noia è orribile, non c’è più l’interesse della scoperta”.

Dal 1991, Gianni, al di fuori dei viaggi all’estero, divide il suo tempo tra Firenze e Lattaia, in Maremma, dove con Daniele Cariani ha sistemato una casa che fa parte di un piccolissimo borgo, “tra boschi e bovi”, come recita il titolo della ‘stagione’ estiva di mostre e rassegne cinematografiche che i due artisti organizzano. Infatti, dal grande prato orlato da un percorso di rose, si accede ai porcili che offrono, negli stalletti, gli spazi espositivi per fotografie, sculture o pitture. Poi, attraverso una breccia nel muro si apre un ambiente basso, quasi una grotta con un gesso di Diana cacciatrice, dove inizia la casa, anch’essa pensata come un percorso; al piano superiore i trionfi di bucrani sui caminetti, il lampadario di fiori di carta, gli oggetti e i molti dipinti alle pareti, danno un’impressione di folta e incessante crescita, come la vegetazione che, dietro la cucina, rigogliosa e potente avvolge senza regola i pali, sale sul muro lasciato sbrecciato, quasi un rudere; tutto si anima poi negli smalti accesi, lampone e smeraldo, che sottolineano certi ambienti: battiscopa, fregi, pareti intere che illuminano gli oggetti come i nastri di seta lucida nei dipinti di Cacciarini.

A Lattaia Gianni, almeno per ora, non ha mai dipinto: il tempo gli è mancato, ma forse, anche in un futuro gli sarà difficile comporre lontano da Firenze, città a cui è legato da sentimenti contraddittori, ma che gli dà molto sul piano dei rapporti umani, e le atmosfere di quegli scambi portano linfa alla sua pittura: e nelle notti estive gli amici, ma anche visitatori più occasionali sono accolti sul prato di Lattaia, dove, sul grande schermo, si proiettano, a tema, cult-movies alternati ad altre pellicole insolite.

Dell’inverno del 1994 è la prima retrospettiva delle opere di Cacciarini, allestita al Palazzo Comunale di Pistoia, a cura di Chiara d’Afflitto, Antonio-Natali, Carlo Sisi, corredata da un catalogo che accoglie contributi critici di Sisi (Gianni Cacciarini in progress) e di Natali (La memoria delle cose), ma anche di Luigi Baldacci (Cacciarini uno e due), Roberto Fedi (Gli oggetti desueti di Gianni Cacciarini) e Giovanna Uzzani (Legittimità di ricerca); la stessa mostra, dove sono presentati anche i grandi quadri di nudo, Franck e macchine del ’92, la Serie omerica del ’93 e Panatenee, del ’94, sarà poi riallestita nel ’96 a Piombino, e, con poche varianti, ai Magazzini del Sale del Palazzo Pubblico di Siena.

A ripercorrere i saggi di quel catalogo – che storicizzano il lavoro di Cacciarini, dopo quasi un ventennio di attività dell’artista, ed offrono ulteriori e più ampi spunti di lettura – si avverte in particolare l’interesse per l’immissione, ormai decisiva, non più occasionale, della figura umana nelle sue opere. Se infatti gli oggetti presentati ora a coppie, “quasi metope sottratte” ad un “tempio dechirichiano”, paiono “sempre più impassibili e sigillati entro un involucro di materia perenne”, Sisi legge, nei quadri di figura, e specie in Panantenee, “un’intensa applicazione alla calma antica dei modelli in posa, ultimo approdo di una passione oggettivante che non può tuttavia eludere, per il protagonismo dell’uomo, almeno una traccia raggelata di passioni”. E Natali scopre in Panatenee una mutata relazione tra figure e oggetti, recante, nelle anatomie, nelle scelte cromatiche e perfino nei geometrici incroci prospettici, un’eco di Rosso Fiorentino. Simili riferimenti evoca anche Baldacci, osservando l’”evidenza barbara d’iperrealismo” dell’arte di Cacciarini, e più precisamente la “visione pop realizzata con una sovraesposizione, sicché le luci sono come calcinate addosso ai corpi e alle cose”, cui si unisce però, nella composizione di nudi, un’aria da Visitazione del Pontormo, come “accecata dal bagliore di un’esplosione atomica”. Roberto Fedi, dal canto suo, sottolinea quanto le figure di Cacciarini paiano frutto “di una selezione dell’esistente”, nutrite di “memoria letteraria e di procedimenti mentali e, direi, verbali”.

Quel periodo è legato anche al distacco dall’ex-studio di Annigoni, dove Cacciarini, dopo la scomparsa del maestro, aveva continuato a dipingere la mattina, quando la luce da nord rendeva appassionante disporre gli oggetti sul tavolo di posa. Un evento che l’artista recepisce come “un taglio del cordone ombelicale”, una forzatura; ma quel mutamento reca poi i suoi frutti, giacché, nelle stanze di palazzo Visacci, Cacciarini non si sentirà più interiormente chiamato a “tenere accesa la fiaccola di Annigoni”. Infatti, dopo aver lasciato quel luogo, egli affronterà con molto entusiasmo il ritratto, quasi più libero di cimentarsi, ma su un altro registro, con un genere proprio del suo maestro. Lo studio si popola così di grandi ritratti femminili e maschili, in cui le figure sono ‘messe in scena’, in un contesto certo debitore a quell’immaginario cinematografico che va prendendo sempre più spazio nella sua opera e che porterà poi al ciclo di quadri esposti alla mostra Cinematografie (1999), frutto di un’unica concezione, ma risultato di quasi due anni di lenta meditazione (è di quel tempo, d’altronde, l’acquisto di un nuovo proiettore ad alta definizione e la sostituzione del vecchio schermo con uno più grande). Un periodo che segna anche il ritiro da appuntamenti espositivi, se si eccettuano l’esposizione nel ’97 alla Bai Gallery di New York, e, nel ’98, la partecipazione alla mostra “Pittori italiani al Museo italo americano di San Francisco” e quella di nature morte, un genere mai abbandonato, alla galleria Ninni Esposito di Bari.

Poca vita pubblica dunque, specie a Firenze, ma due viaggi, uno in California, l’altro in Oriente e poi, soprattutto, l’immancabile rifugio di Lattaia, dove si moltiplicano i percorsi di rose e viene costruita prima una vasca per le piante acquatiche, poi ancora un laghetto, folto di loto e narcisi d’acqua, su cui veglia un busto di Antinoo. Alle proiezioni di film e alle mostre fotografiche o di scultura si aggiunge, nell’agosto del 1996, un nuovo evento “Poeti a Lattaia’, ovvero l’incontro di giovani che recitano i loro componimenti di fronte ad un pubblico che ne segue le performances spostandosi nei diversi luoghi del giardino, e nell’uliveta dove era stata allestita una scenografia.

Da quelle occasioni ha origine la concezione del catalogo della già rammentata mostra Cinematografie del dicembre 1999, curata da Carlo Falciani e Simone Giusti, nella quale alcuni autori (tra gli altri, Valerio Aiolli, Elisa Biagini, Roberto Balò) si sono confrontati con l’universo pittorico di Cacciarini, scrivendo poesie o prose ispirate al ciclo delle sue opere più recenti ed egli stesso ha accettato questo ‘scambio’, riconoscendo in quelle scritture una qualche eco dei suoi dipinti.

Nel nuovo millennio Gianni si è dedicato molto alla ritrattistica, anche a figura intera; e sono stati proprio quegli studi ad ispirare i dipinti su cartone di particolari anatomici del corpo e di fattezze dei volti, indagati, questi ultimi, con maggior attenzione, più che alla forbitezza della forma, al carattere introspettivo del modello. E per introdurre nuove prospettive nella sua ricerca sul ritratto – quasi tutti volti di amici, ma anche il ritratto di Patti Pravo, del 2001, di proprietà della cantante – Gianni intensifica la sua passione di ‘raccoglitore’ di film, arricchendo molto – e trasferendo su DVD – un archivio già molto fornito e vario.

Tra gli eventi espositivi cui Cacciarini ha partecipato, pur dedicandosi ad una vita più ritirata, si ricorda la personale di Falconara Marittima (2002), poi, nel 2003, la collettiva La ‘maniera moderna’ del Rosso Fiorentino e la pittura di oggi, curata da Carlo Falciani al Museo Sandro Parmeggiarri-. di Rezzano (Ferrara), dove presenta Bacco e Nettuno, opere poi esposte anche alla galleria L’Incontro d’arte di Roma insieme ad un grande Autoritratto del 1992. Sempre del 2003 è la donazione agli Uffizi del suo più recente Autoritratto; ed agli Uffizi presenta e regala anche Il grande gazebo, una delle ultime incisioni, confermando la passione per una pratica cui egli non ha mai cessato di dedicarsi. Del 2004 è infine un’antologica, in particolare di nature morte, al Fortino Napoleonico di Ancona; ed altre nature morte saranno esposte alla Strozzina (Palazzo Strozzi) nella prossima mostra su Il genio fiorentino del ‘900.

Continuano per Gianni i soggiorni nella solare Lattaia, meta irrinunciabile e feconda per la creazione artistica, sebbene le opere siano sempre concepite a Firenze, nelle stanze di palazzo Visacci, colme di memoria, ove la fantasia palpita nell’ombra.